Sa Die de sa Sardigna in su Consillu Regionali
In Consiglio Regionale, oggi su “Sa die de sa Sardigna”, si è espressa un’unica voce: il pensiero unico del Centro Destra che con Capellacci e la Lombardo ha commemorato l’evento chiedendo di cambiare lo Statuto della Regione Autonoma della Sardegna, in armonia con Berlusconi nel voler cambiare la Costituzione Italiana nata dalla Resistenza e dall’Antifascismo. Il tutto in armonia con le dichiarazioni del ministro Brunetta che auspica l’abolizione delle Regioni Autonome e a Statuto Speciale.Voce unica forse per paura che i sardi ricordassero il recente scippo di risorse regionali, statali e comunitarie impegnate per i lavori a La Maddalena in occasione del G8.Operazioni che non hanno nulla a che vedere con la solidarietà del popolo sardo verso i meno fortunati come i terremotati.I servi del CD con timide dichiarazioni e ingombranti silenzi hanno obbedito. Auguriamoci solo di non ritrovarci con grandi incompiute da svendere al primo imprenditore “amico” che passa.A questa classe politica degna erede dei padroni piemontesi e dei loro servi “de sa die de s’acciappu”, il popolo sardo bene farebbe a chiedere di pronunciare “nara cixiri” come moto di appartenenza. Il test sarebbe presto fatto. Questo è il mio contributo a questa ricorrenza più che mai attuale. Ritengo che oggi, a 215 anni dai fatti che la legge ci chiama a celebrare, sia opportuno e necessario restituire a quei fatti storici il grande valore che essi hanno. E dico oggi, non tanto perché questo Consiglio regionale inizia il suo difficile cammino quinquennale, quanto perché la Sardegna è giunta ad un incrocio di tendenze e avvenimenti, ai quali farò soltanto qualche accenno, ma sui quali è indispensabile avviare una riflessione collettiva non soltanto di questa Assemblea ma dell’intera comunità sarda. Lo scommiato dei piemontesi , savoiardi e nizzardi , del 1794 non fu uno scatto d’ira dei popolani e dei borghesi cagliaritani contro una piccola casta di aristocratici male in arnese, ignoranti e presuntuosi, ma un episodio pienamente interno al movimento rivoluzionario sardo, iniziato diversi anni prima del fatidico 1789 parigino, e conclusosi intorno al 1812 con l’impiccagione di Salvatore Cadeddu e degli altri congiurati di Palabanda. Il movimento rivoluzionario sardo, per quanto influenzato e suggestionato dal coevo movimento giacobino francese, mantenne nei confronti di quest’ultimo una posizione di totale indipendenza. Assieme alla battaglia vittoriosa dei Sardi contro il tentativo francese di invasione dell’Isola, lo scommiato è l’altra prova decisiva della posizione indipendente e indipendentista dei Sardi. L’indipendenza della Sardegna dall’assolutismo regio e dal feudalesimo, ma anche dallo Stato sabaudo, fu il motivo dominante, fondamentale, intorno al quale, per circa venticinque anni, i Sardi, tutti i Sardi, dal nord al sud, tutte le comunità di paese e di villaggio, si batterono più volte con le armi e le insurrezioni, altre volte con la pacifica mobilitazione popolare per imporre la fine dell’odioso regime feudale. Che spesso fu decretata dalle assemblee comunitarie, organizzate in dichiarazioni con cui si giurava che mai più alcun feudatario sarebbe stato riconosciuto. Sono avvenimenti sostanzialmente sottovalutati, manipolati, sminuiti e persino ridicolizzati, ma di cui non si può negare la grandiosa importanza perché essi parlano di un movimento popolare autonomo e unitario, il primo sviluppatosi in Sardegna dai tempi dell’invasione romana. Il primo movimento, dopo molti secoli di resistenza contenuta quasi per intero entro l’ambito culturale, che ricostituiva la fisionomia comunitaria dell’Isola e la sua identità come fedeltà alla determinazione indipendentistica affermata inequivocabilmente nei tempi nuragici. E’ noto che il movimento indipendentista degli anni a cavallo del 700 e dell’800, fu atrocemente sconfitto. I suoi protagonisti furono ferocemente perseguitati e molti passarono per la forca, per la galera o per l’esilio. Tuttavia, quella sconfitta non travolse solo uomini e aspirazioni, ma anche il progetto di far entrare la Sardegna nella modernità con sue immagini e propensioni. Cadde, cioè il progetto, o l’illusione, di un’Isola capace di diventare indipendente e di procedere nella modernizzazione con i suoi propri mezzi e verso i propri fini specifici. Da quella sconfitta in poi ci sono stati imposti solo modelli esterni ed estranei, dalla privatizzazione dei terreni agricoli, al saccheggio minerario, all’industrializzazione petrolchimica, e istituzioni parallele, fotocopiate, omologate e naturalmente sottomesse. Ma se i progetti di rinascita, già avviati dal fascismo esordiente, ai tempi di Paolo Pili e del sardo-fascismo, sono caduti ancor prima di cominciare, i progetti di modernizzazione esterna si sono realizzati soltanto come disgrazia, come distruzione di tutto l’esistente, idee capacità e risorseCome annientamento dell’identità collettiva, della cultura popolare, di base e ancestrale, della stessa volontà di riscossa e di rivincita. La crisi finanziaria ed economica del mercato cosiddetto globale, la crisi del sistema produttivo e dell’apparato politico-amministrativo, ha consumato anche gli ultimi residui, gli ultimi elementi di sopravvivenza. La Sardegna non sa più a quale illusione appendere le sue speranze ed è in totale balia di chiunque voglia prendere decisioni che dovrebbero comunque riguardarla. Come dimostrano tutte le vicende relative alle industrie chimiche, in mano a multinazionali inaccessibili e praticamente sconosciute, e quelle connesse al fantomatico, inconsistente e comico G8 gestito dal “monarca di Arcore” e accettato supinamente dai vassalli di Cagliari. Questa “situazione fantozziana” nella sua tragicità anche nei risvolti economici per i sardi derivante dallo scippo delle risorse programmate, dimostra il grado di dipendenza servile di questa classe politica che oggi governa la Sardegna. Ma se la modernizzazione promossa dall’esterno è oramai in liquidazione, ridotta com’è ad un volatile programma di lavori pubblici e alla benevolenza pelosa di uno Stato sempre più imperscrutabile e inaffidabile, la tradizione sarda, così corposa e fertile, in ogni suo aspetto culturale economico e politico, è anch’essa in via di totale smantellamento. Su connottu, il conosciuto, il mondo tradizionale a cui ancora alla fine dell’800 ci si poteva richiamare come modello di vita e di azione, oggi non sappiamo più neppure cosa fosse. Per cui si può dire, senza molti timori di sbagliare, che se la modernità in Sardegna non è mai esistita, se non come caricatura, la gloriosa tradizione isolana esiste soltanto come folklore ad uso del consumo turistico. In altre parole, modernità e tradizione, dopo secolare ed aspra contrapposizione, sono giunte entrambe a malinconica estinzione. Le caratteristiche della nostra crisi sono ormai evidenti e tragiche. Non abbiamo più una vera economia, se non quella subalterna e succursali sta, a cui affidare la produzione dei nostri beni e servizi, e siamo gravati da istituzioni politico-amministrative che non conservano neanche più gli appellativi riferibili alle antiche autonomie, che non rappresentano il popolo sardo e che non sono in grado di esprimere alcuna volontà politica di qualche rilievo e consistenza. Soprattutto, e qui tocchiamo veramente il fondo, non abbiamo più davanti a noi, davanti al popolo sardo, un destino accettabile e credibile verso cui incamminarci. E non sappiamo, intanto, come uscire dalla crisi mondiale e come sottrarci alla minaccia di diventare rapidamente molto più poveri e assoggettati. Non abbiamo scelta. O meglio, abbiamo soltanto un’ipotesi a cui aggrapparci: quella di reinventarci il nostro destino collettivo, e dentro esso ogni nostro destino individuale, ripercorrendo e riesaminando tutto il cammino, preistorico e storico, a partire dalla nostra età dell’oro, che noi Sardi abbiamo percorso. Lo scopo è quello di ritrovare soluzioni reali, non fittizie, non apparenti, per una economia della prosperità condivisa ma non della truffa, e per una politica che restituisca a tutti i diritti di cittadinanza e di partecipazione effettiva all’autogoverno della società, e per una cultura che sia dei valori e non della mistificazione. Se le celebrazioni de Sa die de Sardigna serviranno a dare anche soltanto un piccolo impulso all’avvio di questa riflessione e discussione collettiva, esse non saranno state vane. Questo è comunque il mio auspicio. Ed anche il mio personale impegno. Il compito che spetta ad ogni sardo libero.Claudia ZunchedduConsigliera regionale Rossomori
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