Per il 60° Anniversario del Parlamento Sardo
Il gruppo consiliare in Regione di cui faccio parte (Comunisti-La Sinistra Sarda-Rossomori), mi ha onorato delegandomi a rappresentarlo in occasione del 60 anniversario del Parlamento Sardo.
Dopo alcune incertezze sul taglio del mio intervento, ho optato per un discorso politico di radice storica antica, dal quale ritengo sia necessario ripartire per costruire un futuro più felice per i sardi. L’impronta parte dall’Autonomia versol’Autogoverno. Saludu su guvernu de sa Sardigna e totus is sardus benius a intendi “pagu noas” a pitzus de s’AutonomiaLe cosiddette classi dirigenti sarde guardarono sin da subito all’autonomismo moderno, emergente dalla rivoluzione angyoiana, alla fine del 1700 con la vista alterata dallo strabismo perenne. Teorizzarono senza vergogna questa loro alterazione visiva pronunciando e diffondendo, una loro famosa massima che le voleva fedeli al re, non infedeli alla patria sarda.In questa massima, quasi un principio etico e culturale, può essere racchiusa la storia di circa duecento anni dell’Autonomia della Sardegna e di tutti gli autonomisti sardi, compresi i dirigenti del Psd’Az che quanto a strabismo, non sono stati certo gli ultimi. Naturalmente non ci sfugge che la moderna Autonomia non è che “un miagolio di un gattino esangue, inabile a confrontarsi con il ruggito del leone della indipendenza nuragica”, aspettativa di liberazione nazionale e di autogoverno di un popolo. Indipendenza nuragica che non aveva bisogno di alcuno Stato per reggersi, perché la sua potenza era costituita dalle decine di migliaia di comunità di villaggio (su cui non incombeva una “città-capitale” famelica), autonome, sovrane e collaboranti all’interno di una Confederazione capace di governare tutta l’isola e che si rappresentava verso l’esterno, certamente verso l’Egitto delle Piramidi e la Grecia fortificata, con il sistema simbolico, unico al mondo, di più di diecimila nuraghi e altri monumenti megalitici. L’indipendenza nuragica assicurò per più di mille anni la pace e l’amicizia con i popoli vicini. La collaborazione piena e senza riserve tra le popolazioni isolane e la grande e generosa Natura, ovvero le comunità delle piante e degli animali. In questo modo, essa indipendenza, favorì l’affermarsi di una società dell’abbondanza, ma non dello spreco, vale a dire la prosperità condivisa. E ciò senza doversi impegnare nella elaborazione di strategie economiche truffaldine e fragilissime, e senza dover sopportare l’ossessione di un PIL (Prodotto Interno Lordo) quasi sempre latitante.Per difendere l’indipendenza nuragica, e ritardare il brutto incontro con la Storia, le mal encontre, i Sardi hanno dovuto combattere circa 600 anni di guerre, guerriglie, insurrezioni, imboscate, rapine ed altro, dal 500 circa a.c. fino alla cimiteriale pacificazione romana.E poiché gli unici popoli felici sono i popoli senza Storia, sostiene un acuto filosofo francese, da allora noi sardi non siamo stati mai più felici, abbiamo sempre sofferto della perdita della nostra età dell’oro, ma abbiamo anche sempre continuato a combattere se non per l’indipendenza certamente in nome dell’indipendenza.Già Amsicora, il grande proprietario e armentario sardo abbondantemente punicizzato, tentò di riparare il danno dell’occupazione straniera offrendo ai sardi delle montagne, a nome dei punici, una semi-indipendenza, una sorta di autonomia, se fossero intervenuti a combattere contro i romani. Non se ne fece niente. A sconfitta si aggiunse nuova sconfitta. I primi autonomisti subirono l’orrore del suicidio. La tela punica dell’autonomia fu stracciata prima che riuscisse a coprire qualcosa.Poi toccò alle Istituzioni giudicali dell’Arborea di inalberare la bandiera dell’indipendenza dell’Isola. Ma il sogno, sostenuto da ambigue formazioni statuali, fu presto affogato nel sangue della collina di Su Boccidroxu di Sanluri. Neanche il disegno di Giovanni Maria Angioy di una repubblica giacobina sarda ebbe sorte migliore poiché si concluse con una rivoluzione abortita, col doloroso esilio dell’Autore e col massacro di gran numero di patrioti, giacobini e moderati. Mentre non ebbe seguito il moto indipendentista, ben dotato di capi e di armati, scoppiato intorno al 1920 nel sassarese in quanto fu riassorbito dal nascente Partito Sardo d’Azione.Alcuni atti di grande indipendenza furono compiuti dai Sardi proprio in assenza di strutture statuali autoctone.Il primo, fu la stipula, nel 752, di un patto di pace tra arabi e Sardi a base di gisyah (in arabo significa ricompensa), che era un tributo collettivo a cui si sottoponevano i Cristiani in cambio di una franchigia per l’esercizio del commercio e dei culti religiosi. I Sardi, chi? Uno Stato indipendente, di cui non abbiamo notizia o, più probabilmente, una rete di comunità tornate a nuova vita dopo secoli di sopraffazioni?Il secondo, meno di 70 dopo, nell’815, fu la delegazione di maggiorenti sardi in visita, in quel di Francoforte sul Meno, a Federico il Pio, Re dei Franchi e figlio di Carlo Magno, col quale trattò i problemi della sicurezza del Mediterraneo. Delegazione, di chi? Delle stesse comunità a cui abbiamo appena fatto riferimento?I Sardi, dunque, hanno sempre esercitato, ogni volta che è stato possibile, il diritto all’indipendenza. Ed è proprio tale lungo e continuo esercizio che ne costituisce il fondamento morale. Principio oggi messo in maniera subdola in discussione dai leader di un Centro Destra italiano con un feroce attacco alla cosiddetta “specificità regionale” e allo Statuto Speciale, e sostenuto con complicità dai sodali sardi che con una velenosa riforma dello Statuto, di fatto, vogliono i sardi sempre più limitati, assoggettati e privi di qualsiasi processo di autonomia reale, di autodeterminazione e di autogoverno. Ora tocca a noi, ultimi autonomisti. Autonomisti già scaduti o in inesorabile scadenza. Tocca a noi di issare la bandiera dell’Indipendenza della Sardegna sopra l’immensa torre di macerie, di veleni, di residui, accumulata nell’isola durante il passaggio travolgente della modernità. Le macerie dell’Ente autonomistico, da sempre maldestro nel raccogliere le aspirazioni popolari e trasformatosi in una succursale d’affari, o in monte di pietà poco soccorrevole, o in uno stipendificio. E variamente mescolate ad esse vi sono i residui degli antichi partiti politici, delle loro ideologie, dei loro programmi e propositi.Le rovine industriali, ampiamente previste, e dell’industria mineraria prima e di quelle petrolchimiche dopo, segnate da una lunga processione di croci che si fa ogni giorno più lunga, che arriva alle nostre porte, accompagnata dal corteo larvale di sindacati un tempo gloriosi.Ma non mancano neppure le rovine, le reliquie, delle nostre più profonde tradizioni economiche e sociali, della cultura tutta centrata sul valore incancellabile dell’Uomo, della lingua sarda capace di esprimere il pensoso e ironico distacco dell’uomo sardo dall’impervia realtà del mondo.Chi, dunque, avrà il coraggio e la forza di innalzare la bandiera dell’Indipendenza sopra lo scenario dell’inondazione modernista?Perché questo è il panorama di un luogo che ha già avuto lo sviluppo, in cui lo sviluppo è stato quello che abbiamo conosciuto e che non poteva essere diverso e in cui, soprattutto, non ci sarà più alcuno sviluppo. Dobbiamo, in altre parole, alzare la bandiera dell’Indipendenza nei territori calpestati e scompaginati dallo sviluppo, nei territori cioè del DOPOSVILUPPO. E’ abbastanza chiaro che dobbiamo rapidamente inventarci, con le nostre mani e la nostra intelligenza forme e organizzazioni di merci (meglio di “beni”) e servizi per provvedere non a nuovi accumuli di ricchezza bancaria ma per creare una nuova prosperità sicura e condivisa. Dobbiamo pensare a ridisegnare il profilo di una nuova società sarda che mai è stata una cosiddetta società di massa, come quella malformata di adesso, ma una società di comunità, una rete ricca e varia di paesi e villaggi.Soprattutto, dobbiamo dare nuove basi e prospettive, altra organizzazione e reali riferimenti all’impegno politico-sociale della gente.Una fase della “vicenda dei Sardi” si è ormai chiaramente e definitivamente chiusa. La tela punica ordita da Amsicora è stata disfatta, di giorno e di notte, da una qualche Penelope. Si è chiusa la fase dell’Autonomia regionale. Di quella formula, cioè, in cui le menti più generose avevano sperato di poter raccogliere e condensare l’aspirazione millenaria dei Sardi alla riconquista delle libertà collettive.Ed, in effetti, l’Autonomia regionale, per di più “speciale” e costituzionalmente rilevante, avrebbe dovuto aumentare i diritti dei Sardi sia in quanto individui che in quanto collettività, avrebbe dovuto dare loro mezzi e poteri per esprimere meglio le loro propensioni e decisioni. Avrebbe dovuto restituirci le nostre capacità e tradizioni di autogoverno. Avrebbe dovuto, in altre parole, renderci più attivi e intelligenti.Non è andata così. Anzi è andata proprio male, Perché, invece, di stimolare le propensioni all’autogoverno, come era, per esempio negli auspici di Emilio Lussu, in cui spesso Autonomia e Autogoverno venivano quasi considerati sinonimi, la Regione ha fomentato la deresponsabilizzazione della gente e l’assistenzialismo paralizzante.Se vogliamo dare uno scopo alla nostra esistenza di consiglieri regionali, se vogliamo salvare quel che resta dell’Autonomia non dobbiamo fare altro se non procedere speditamente verso la realizzazione dell’Autogoverno popolare secondo le regole della nostra più antica tradizione. In primo luogo, perché ogni uomo deve avere garantito il diritto a vivere nella propria comunità, o in quella di elezione.In secondo luogo perché una volta appurato che l’istituto autonomistico non è più luogo, se mai lo è stato, in cui prende forma la volontà collettiva dei Sardi, si deve favorire la ricomposizione degli ambiti, in cui tale volontà collettiva si è tradizionalmente e secolarmente espressa. Che sono le comunità di paese e di villaggio, nonché le comunità rionali delle città grandi e piccole.Alle forme della rinascente volontà comunitaria questo consiglio regionale, se non vuole essere soltanto una insignificante appendice burocratica dello Stato, deve assicurare, almeno nella fase d’avvio, l’assistenza tecnica necessaria, le procedure per la formazione ed espressione della volontà. Deve concorrere a definire, in altre parole, la fisionomia politico-giuridica delle comunità, i diritti di partecipazione e intervento negli atti più importanti dell’Istituto di Autogoverno a cominciare dai bilanci e dall’attribuzione degli incarichi più rappresentativi. Per ragioni di tempo, il mio intervento in Consiglio finisce qui, ma completo l’argomento per gli amici del blog …Il passaggio dall’Autonomia all’Autogoverno, in buona sostanza, è il primo atto di Indipendenza della Sardegna attuato non per avventurose peripezie ma mediante profonde auto-riforme sia dell’assetto sociale complessivo che dell’organizzazione politica e della distribuzione dei poteri. Esso costituisce il ritorno dei cittadini alla responsabilità individuale e collettiva, all’impegno sociale necessario e doveroso.Dobbiamo, perciò, concorrere a ridefinire la personalità politico-giuridica delle comunità, del nuovo corpo sociale richiamato ad agire in campo aperto, assieme e non contro gli altri soggetti, più o meno istituzionali, ma con la consapevolezza del ruolo primario di sintesi e rappresentanza evocato anche dalla crisi economica e politico-istituzionale, manifestatasi in questi giorni con l’eloquente astensionismo elettorale.Naturalmente, so bene che molte delle comunità che hanno agito fino a pochi decenni addietro si sono estinte, o sono in via di estinzione, o sono comunque di difficile recupero, o sono in cerca di una laboriosa rinascita. Ma questo è solo un altro, grande e terribile, problema che dobbiamo rapidamente affrontare e risolvere.Perché è soltanto mettendo al centro del dibattito e dell’azione le comunità, rendendole protagoniste responsabili delle nostre sorti, che sarà possibile, e anche rapido, passare dall’Autonomia comatosa all’Autogoverno vigoroso e verdeggiante. Ed è solo attraverso l’Autogoverno popolare, e non per ideologici e perigliosi percorsi, che è possibile da subito ritornare alla leonina Indipendenza della nostra Isola.09/06/2009
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