La manifestazione antimilitarista dell’11 ottobre a Cagliari – repressa perché minoritaria
Sulla manifestazione dell’11 di ottobre, di cui la stragrande maggioranza dei cagliaritani, me compresa, non ne sapeva niente, ritengo siano necessarie alcune precisazioni, nonché una riflessione collettiva riguardo a modi e metodi su come si conduce una lotta antimilitarista e anticolonialista, democratica e pacifista.
Per chi ha vissuto e continua a vivere da oltre 40 anni, nelle piazze e nelle strade, ad ascoltare e difendere i diritti di ogni cittadino e dei popoli, sia della propria Terra che del Mondo, per chi ha sempre denunciato ogni ingiustizia e sopruso, come nel mio caso, è doveroso analizzare serenamente e in modo critico i fatti recenti avvenuti a Cagliari.
La mia posizione politica merita un chiarimento, ancor più quando, per esigenze giornalistiche, si estrapolano dei concetti da un contesto ampio e da cui non sempre si può prescindere.
Sui contenuti della manifestazione dei giovani, contro l’aggressione violenta della Nato nei nostri territori con l’Operazione Trident, naturalmente non posso che condividerli. Come ho ripetutamente denunciato, attraverso tutti i mezzi possibili, a parte i danni inestimabili per le esercitazioni con armamentari di guerra nell’Isola, l’operazione pone la Sardegna in prima fila in un conflitto non solo Mediterraneo e Mediorientale, ma Mondiale con le prevedibili ricadute in termini anche di sicurezza per i nostri territori e le nostre popolazioni.
Sulle modalità della manifestazione, invece, non concordo. Ciò che appare, è la mancanza di un’ampia partecipazione e condivisione democratica all’iniziativa, frutto di un progetto minoritario. Esistono da decenni in Sardegna, numerosi e forti movimenti antimilitaristi che pare non siano stati coinvolti.
Sicuramente la loro assenza alla manifestazione, ritengo che abbia fortemente indebolito la protesta, generando l’idea di “scarso interessamento dei sardi” su questi temi. Il movimento antimilitarista e anticolonialista non può essere interpretato in un’ottica minoritaria di “duri e puri”. Questa debolezza e i fatti di Cagliari lo dimostrano, ha esposto a maggior rischio di repressione quel centinaio di giovani, creando un alibi e un pretesto per aprire una nuova alba di inasprimento delle repressioni da parte dello Stato italiano su tutti i movimenti di dissenso esistenti in Sardegna e soprattutto quelli antimilitaristi.
I fatti di domenica, sono la risposta di debolezza minoritaria che lo Stato desiderava a fronte del grande fermento e delle mobilitazioni in atto in Sardegna su questi temi.
Purtroppo è stato un momento perdente per la causa antimilitarista sarda.
In tempi di grandi crisi e di operazioni pesanti da parte dello Stato, degli Stati, della Nato e delle Multinazionali, per contenere le ribellioni popolari, prima si restringono gli spazi di democrazia per poi passare a repressioni violente. Le crisi, che non hanno soluzione immediata, “in democrazia” le combattono in questo modo. E’ un dejà vu per quelli della mia generazione che hanno vissuto le Leggi Speciali di Cossiga, con la repressione e la morte di tutti i movimenti di contestazione democratici e la criminalizzazione di qualsiasi forma di dissenso.
Alla Sardegna è dovuta da parte dei suoi movimenti uniti, di organizzazioni e dei singoli cittadini, una risposta compatta e forte contro lo Stato e le sue connivenze guerrafondaie internazionali di cui noi sardi per primi paghiamo i costi.
La classe politica sarda, in testa il Presidente Pigliaru, tra accondiscendenza e “stato di narcosi”, dev’essere sollecitata perché faccia giustamente la sua parte di opposizione e resistenza istituzionale nei confronti dei diktat dello Stato italiano.
Claudia Zuncheddu
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