L’ultimo cavaliere del rischio e della velocità
Clay Regazzoni… il mito e la leggenda oltre la F1.
UNIONE SARDA -6 Gennaio 2007
di Claudia Zuncheddu
Clay Ragazzoni era un uomo che non nascondeva i sentimenti, per cui era facile cogliere la sua collera contro qualcuno o qualcosa. La sua ossessione non era Dio, al quale sosteneva di non avere nulla da rimproverare, ma l’ignoranza degli uomini, di chi su di lui è intervenuto per anni producendo danni e costruendo l’handicappato.
Le sue ire erano conosciute nei nostri ambienti sportivi africani. Lui era per la perfezione e per il rigore ( la sua componente svizzera) ma, da sotto i suoi robusti baffi emergeva dolcezza e una sublime malinconia appena stemperata dal cuo calore mediterraneo.
La sua vita è stata tutta una corsa in salita dall’inizio alla fine. All’esordio, battagliava e vinceva con le sue vecchie monoposto senza alettoni e con pochi soldi. Ma per tutta la carriera storie di ingiustizie e di vittorie talvolta sottratte, hanno accompagnato il suo percorso sportivo. Sino al 1980, quando al GP degli USA, a Long Beach, un grave incidente decretò la fine del pilota inFormula 1…
…Ma per “l’uomo da 300 Km all’ora“, la corsa continua seppur senza gambe e su una carrozzella priva di rombo: il suo giocattolo amato e odiato ma di cui era gelosissimo. Nessuno poteva sfiorarla con l’incauta idea di aiutarlo. Non tollerava la compassione, quello speitato sentimento che gli faceva crollare il mondo addosso, diceva “peggio dell’incidente sul circuito di Long Beach” .
Ricordo che nel 94 all’ingresso del Palazzo dei Congressi alla Fiera di Cagliari, dove doveva partecipare alla presentazione del mio libro sulla Parigi – Pechino, una grande folla lo accolse con un applauso interminabile. Ero al suo fianco quando qualcosa ostacolò il suo cammino. Fu allora che due mani discrete, quasi impalpabili spinsero il campione. Lui si voltò di scatto pronto a protestare, ma avvertendo la sensibilità di quelle mani, con un sorriso dolce da “narciso” disse compiaciuto “…ah, sei tu…”. Era la mia amica Carla.
Clay odiava l’ipocrisia e la mediocrità di una società che nasconde il rifiuto della diversità con un insopportabile buonismo. La parola “tolleranza”, che ha in se anche l’accezione della benevola sopportazione, non gli piaceva. E aborriva il politicamente corretto: “ disabile” o “diversamente abile”… “tutte idiozie“, tuonava, “noi paraplegici siamo semplicemente handicappati”. Handicappato, e indomito. Per il mito della F1 degli anni 70, nonostante il dramma del GP di Long Beach, la corsa continuò lungo circuiti, deserti e strade di tutto il mondo, per altri 26 anni senza mai scendere dall’auto. Il passaggio dalla F1 ai rally marathon africani su camion e auto a trazione integrale, non fu sicuramente una scelta motoristica soft.
Alla vigilia del Rally dei Faraoni nel 1989, seguì incuriosito l’allestimento del mio mercedes 280 vicino a Como, nell’atelier di Graziano Pelanconi che per caso era anche suo preparatore.
Ci incontrammo in Egitto e Clay volle parlarmi perché aveva necessità di una consulenza su una patologia tropicale contratta da un suo parente in Africa. Ma ho sempre creduto che lui fosse molto incuriosito dalla presenza di una ragazza al volante, in un ambiente motoristico di per sé selettivo e per cultura rigorosamente maschile. Era un mondo precluso alle donne.
Mi disse di aver dato l’indicazione ai suoi meccanici di garantirmi l’assistenza lungo le piste qualora ne avessi avuto bisogno. Certamente era un atto di generosità e affetto, visto i costi proibitivi dell’assistenza al seguito.
Questa si che era una bella notizia! Mi sentivo più sicura, ma già dalla prima tappa con Clay, lasciate le piramidi fuori dal Cairo, ci incrociammo lungo la pista mentre tornava indietro e visibilmente su tutte le furie. Scoprii che imprecava contro i meccanici per un’imperfezione che lo costrinse al ritiro, e ahimè, con lui si ritirò pure l’assistenza.
La buona sorte volle, che seppur priva del supporto dei meccanici al seguito, e costantemente ad alto rischio di rottura, finissi la gara con un’ottima posizione in classifica.
Erano gli anni in cui le corse africane raggiunsero l’apice della gloria. Clay correva su un grosso camion, un Tatra bianco e rosso (i colori della Marlboro) con i comandi centralizzati.
Alla successiva Parigi-Dakar, correvamo entrambi su Mercedes; la sua era un 5600, passo lungo con i comandi automatici, la mia era un 280 leggermente modificato e alleggerito con la scocca in fibra. Quell’edizione era fra le più dure della storia, si registravano numerosi abbandoni ad ogni tappa, e anche Clay abbandonò dopo un capotamento. La sera, accomodato nella sua carrozzella e non curante di qualche abrasione sul viso, mi incitava a continuare la gara con prudenza, per arrivare al traguardo, “le Mercedes sono tutte ritirate, resta in corsa solo la tua. Devi arrivare”.
Intanto nel suo bivacco privato, i suoi cucinavano la pasta e come tutte le sere, quando non si passava la notte in pista, mi invitava a mangiare una grande porzione di spaghetti, dosata da lui. “La tappa domani sarà molto dura e bisogna mangiare i carboidrati per essere in forma”.
In realtà il pasto preconfezionato che ci passava l’organizzazione con Tour Afrique era una sgradevole bomba ipercalorica e Clay per la gratificazione del palato, era profondamente uomo del sud.
Le dune del deserto del Téneré sono altissime e le sabbie sottili come il borotalco. L’effetto fesh-fesh fa sprofondare facilmente le auto, per cui bisogna dosare l’acceleratore sino a raggiungere la velocità che consenta il galleggiamento. Inoltre con il gioco dei venti spesso il versante nascosto della duna può essere svuotato tanto da creare un enorme incavo alto qualche centinaio di metri. E’ uno dei banchi di prova più duri della tecnica di guida nelle grandi sabbie.
Ma Clay amava una tecnica, quella della F1, della corsa al massimo e non rinunciava mai anche se spesso lo penalizzava. Il progressivo stravolgimento della filosofia che caratterizzava la Dakar agli albori, lo portò a disamorarsi delle corse africane.
Lui, voce critica in questi anni di scempio dello sport automobilistico, denunciava i grandi interessi dettati dalle esigenze del mercato mondiale, come il cancro che ha ucciso l’anima di questo sport. Della stessa Formula 1 riusciva a vedere solo le partenze.
Nonostante tutto, senza mai scendere dall’auto, l’ultimo “cavaliere del rischio e della velocità” lascia la sua gente: quella ferma al mito della F1, quella che l’ha conosciuto come grande gentlement delle sabbie africane, quella che l’ha amato perché ha saputo donare a chi non aveva le gambe, il diritto al brivido e alla felicità. E per l’ultima partenza, per la tappa più lunga “bonne route” Clay, campione leggendario.
Gian Claudio Giuseppe Regazzoni, noto Clay, nasce a Lugano il 05/09/1939.
Passa gli ultimi 40 anni della sua vita in circuiti stradali e in fuoristrada in tutti i continenti.
Esordisce nel 63; nel 66 corre su F3 e su F2 e nel 68 pilota collaudatore della Tecno .
Alla fine del 68 firma il contratto con la Ferrari per tutto il 69 in F2. Nel 70 debutta in Formula 1 sempre al GP d’Olanda. Lo stesso anno la sua 1° vittoria su Ferrari n° 4 di Maranello a Monza.
Corre alla 24 ore di Le Mans.
Nel 1980 un grave incidente nel Gran Premio USA a Long Beach pone fine alla gloriosa carriera in F1.
Dopo l’incidente continua l’attività motoristica dedicandosi ai rally-marathon africani, partecipando da protagonista a diverse edizioni della Parigi Dakar, Rally dei Faraoni ed altre classiche del settore.
Inoltre si è dedicato in tutto il mondo a gare su auto d’epoca.
Pubblica due libri, un’autobiografico “E’ questione di cuore” e “La corsa continua”.
Clay Regazzoni ha dedicato molto della sua esistenza all’inserimento dei disabili nella vita e nello sport attraverso la Federazione Italiana Sportiva Patenti Speciali e attraverso il Clay Regazzoni Onlus –Aiutiamo la Paraplegia, riuscendo ad apportare un enorme contributo economico al Centro di Ricerca e Sviluppo di nuove soluzioni per i paraplegici, dell’ospedale di Magenta divenuto d’avanguardia. Ha inoltre attivamente sostenuto il Centro di Uroparaplegia dell’ospedale Niguarda di Milano.
Commenti