La mia Sardegna Indipendente e di Sinistra
da www.terranews.it del 23/01/2011
A colloquio con Claudia Zuncheddu, medico specializzato in medicina tropicale, ex pilota di rally, fondatrice del partito Rossomori (3,5 percento alle ultime elezioni regionali) che vuole raccogliere l’eredità progressista del Partito sardo d’Azione.
di Gabriella Saba
«Il mio percorso politico è stato naturale, coerente con una formazione di base fortemente identitaria, e sempre consapevole di un patrimonio e di una cultura specifici». Claudia Zuncheddu ha un viso bello e forte in cui sono iscritti i dati estetici del patrimonio che cita: mediterranei e nordafricani, con tracce mediorientali. Ha occhi magnetici e vagamente verdi e un sorriso che quando vuole è dolce.
«In ogni caso – dice – la mia prima battaglia è stata quella per la conquista dell’individualità per essere padrona della mia vita e gestirla liberamente. E infatti a 19 anni vivevo già da sola».
Oggetti d’arte cinesi, africani e mediorientali addobbano la sua casa, un appartamento magnifico all’ultimo piano di un palazzo di Castello, la parte antica di Cagliari.
Claudia Zuncheddu è medico specializzato in medicina tropicale, è stata pilota di rally ma è, soprattutto un personaggio politico di spicco. Se esiste, oggi, un partito indipendentista vivacemente schierato a sinistra, lo si deve a lei. Il partito si chiama Rossomori ed è la costola uscente del vecchio Psd’Az (Partito sardo d’Azione) fondato da Emilio Lussu. Quando quest’ultimo decise nel 2009 di schierarsi con il centrodestra, alias la giunta del governatore Ugo Cappellacci, un certo numero di sardisti ne uscì, prima tra tutti la Zuncheddu che, insieme a qualche altro, li organizzò in un partito nuovo: quei Rossomori, appunto, il cui simbolo è un profilo moro su cui spicca la scritta Rosso e Mori in rosso e nero e che, benché piccolo e ai primi passi, si accaparrò alle elezioni regionali ben 23.000 voti, circa il 3,5 per cento.
La presidente, che per inciso è anche consigliere regionale, è alle prese al momento con varie battaglie, una di queste riguarda il contestato poligono di Quirra, al centro da anni di polemiche per l’alto tasso di leucemie e tumori tra gli abitanti della zona e nel mirino dopo la relazione shock di due veterinari. «È una vecchia e irrisolta questione che riporta ad altro. Il 60 per cento dei poligoni italiani si trova in Sardegna. Vuole dire che il nostro territorio è ancora terra di conquista». Quando si arrabbia, capita che Claudia Zuncheddu abbandoni l’Aula. In Consiglio regionale, e nei comizi, parla italiano e sardo. «Ci sono espressioni che non sono traducibili in italiano. Il saluto, in ogni caso, lo faccio in sardo».
L’indipendenza? «È l’unica via. Ma va raggiunta per tappe».
Quattro Parigi-Dakar
Soltanto quando finisce di parlare, ti accorgi che è una donna minuta. Eppure, negli anni Novanta, è stata pilota di rally-raid: una delle pochissime donne a partecipare a quattro Parigi-Dakar, a tre rally del Faraoni, a un rally in Tunisia e a una Parigi-Pechino (su quest’ultima esperienza, ha scritto un libro reportage). Correva come privata, e quindi con pochi mezzi. Senza assistenza veloce, ma arrivò sempre e si attirò i riflettori internazionali e l’attenzione di molti media. «Mi piaceva l’agonismo, e c’era poi questo fatto della sfida con gli uomini. Ero sul serio una delle poche donne pilota, allora. Quelle corse, peraltro, mi scatenavano molti conflitti interiori: per esempio, quando correvo in Africa vivevo con sofferenza il contrasto tra la miseria di certe zone e lo sfoggio consumistico imposto nelle gare. Lo giustificavo con il mio amore per l’agonismo». A 19 anni aveva fatto, in auto, il periplo del Mediterraneo, più tardi si avvicinò ai deserti, a quel Nordafrica che la riportava, spiega, alle sue radici. Ci andò come pilota e come medico, e lavorò come volontaria negli ospedali. Da anni, collabora inoltre a progetti di sviluppo con i Tuareg del Mali. «Il mio sogno è andare, un giorno, a rintanarmi in Mali, un luogo in cui mi sento accolta e in cui, la farà ridere, ringiovanisco ».
Quelle corse, peraltro, mi scatenavano molti conflitti interiori: per esempio, quando correvo in Africa vivevo con sofferenza il contrasto tra la miseria di certe zone e lo sfoggio consumistico imposto nelle gare. Lo giustificavo con il mio amore per l’agonismo». A 19 anni aveva fatto, in auto, il periplo del Mediterraneo, più tardi si avvicinò ai deserti, a quel Nordafrica che la riportava, spiega, alle sue radici. Ci andò come pilota e come medico, e lavorò come volontaria negli ospedali. Da anni, collabora inoltre a progetti di sviluppo con i Tuareg del Mali. «Il mio sogno è andare, un giorno, a rintanarmi in Mali, un luogo in cui mi sento accolta e in cui, la farà ridere, ringiovanisco ». Nel frattempo, si dedica alla politica, e dei due ambulatori di base che segue, a Cagliari e nella zona di Sant’Elia, il quartiere più marginale della città, uno slum in versione soft che per lei, dice, è anche una scuola di vita, e su cui varrebbe la pena di scrivere un libro. Qual è il suo programma, dottoressa Zuncheddu? «L’ambiente, perché è l’unica ricchezza reale del popolo sardo ed è parte integrante del patrimonio identitario, che è stato saccheggiato e offeso dallo Stato italiano».
Non ha fatto granché, lo Stato, per l’ambiente sardo… «Ma figuriamoci. Il modello di sviluppo è stato pessimo per l’ambiente, oltre che per l’economia ». A proposito di poligoni…«La Sardegna è diventata una piattaforma di guerra anziché un’oasi di pace, che sarebbe invece la sua vocazione». E oltre all’ambiente? «I diritti civili. A partire da quelli dei gay, che come noi (sardi, ndr) sono una diversità e quindi una ricchezza». Ha presentato interpellanze e mozioni per la questione delle carceri: i carcerati sardi scontano la pena, in genere, lontano dall’isola, «con grande disagio dei famigliari che sono spesso poco abituati a muoversi, e devono sobbarcarsi lunghi viaggi per raggiungere penitenziari che quasi sempre sono isolati». Precisa: «Ho fatto una gran battaglia, su questa storia.
Mozioni, interrogazioni, interpellanze perché portino il problema davanti al ministro Alfano, per ora però non si sa niente. Il fatto è che la territorialità della pena è prevista dalla legge italiana. Mi chiedo dunque di che sovranità si tratti, se si permettono di non rispettare quella legge».
Ex sessantottina
Che filo conduttore lega il suo impegno di adesso ai suoi esordi, nel movimento studentesco e la sua militanza vicina a Lotta Continua, e al femminismo? «Ho una formazione di base fortemente identitaria, direi che questo è il filo conduttore. Un attaccamento fortissimo alla mia terra e alla mia cultura. Radici forti che mi hanno permesso di viaggiare come cittadino del mondo, perché senza radici non si può viaggiare».
Il ’68, come racconta, «me lo beccai in pieno». Nel 1969, quasi una ragazzina, militava in prima fila nel movimento studentesco, sia pure «con un’ottica identitaria, avevo sempre la consapevolezza che si trattava di un fenomeno di importazione».
Più tardi, si avvicinò a Lotta Continua e anche in quel caso, la sensazione era che il movimento dovesse adattarsi alla realtà sarda. «Il mio rapporto con la politica fu, sotto questo aspetto, molto conflittuale».
A quel tempo, si divideva peraltro tra Cagliari e Milano, dove studiava medicina. Prese distanza dalla politica dopo il 1977, con l’avanzata della militanza clandestina. «Molta gente arretrò, e io scoprii un modo nuovo di fare la rivoluzione. Non ero tra quelli che si sentivano vinti, semplicemente cambiai l’impostazione. Quella rivoluzione che era incentrata sulla lotta di classe, la trasformai in una rivoluzione individuale, un viaggio di scoperta personale che, però, poteva essere anche utile al mondo». E il femminismo? «Anche in quel caso, come potrei spiegare? C’ero perché c’ero ma mi trovavo già in una fase avanzata di emancipazione. Io cominciai a lavorare quando ero molto giovane, quindi ero già nella fase dell’autonomia. Fu un modo un po’ individuale di vivere quel movimento».
Alla vita politica tornò quando, paradossalmente, diventò famosa come pilota donna. A quel punto, tutti i partiti sardi la volevano in squadra. Per un po’ resistette agli assalti e poi cedette alle insistenze del Psd’Az, un vecchio amore per retaggio paterno, e però anche un amore discusso, e lacerante.
Quando entrò era il 2003, il Psd’Az era già spaccato e da sedici anni mancava dal Consiglio comunale, ma lei riuscì a entrarvi in una coalizione di sinistra di cui facevano parte anche i sardisti. Quando il partito sancì definitivamente lo spostamento a destra con l’alleanza con Cappellacci, lei fu la prima a decidere di andarsene, perché, diceva, «se aspettiamo gli uomini, questi traballano sempre». Sciolse il nodo delle ambiguità. «Il partito era di destra? E dunque la sinistra
se ne andava».
Diventò ancora più barricadiera. In prima fila contro le centrali nucleari, e «contro tutte le decisioni che vengono prese con la giustificazione che il territorio è italiano».
Non si sente nemmeno un po’ italiana? «Guardi, io sono stata allenata a rispondere, alla domanda “Sei italiana o sarda?”, che sono sarda. E questo spiega molte cose». L’indipendenza è una conquista lenta? «Sì, e vorremmo ottenerla per passi, e il primo di questi sarebbe l’autonomia energetica». Come sarebbe la Sardegna sovrana, rispetto alla Comunità europea? «Non è nemmeno detto che una Sardegna indipendente dovrebbe far parte dell’Unione europea.
Ci troviamo in una posizione strategicamente interessante che permette di privilegiare anche altri Paesi del Mediterraneo oltre a quelli dell’Ue, per esempio quelli nordafricani».
Ma l’indipendenza è proprio necessaria? «Naturalmente, visto che cinquant’anni di autonomismo non ci hanno fatto diventare più ricchi, siamo anzi più poveri.
Pensi soltanto ai modelli di sviluppo industriale che sono stati imposti: sostanzialmente disastrosi. L’indipendenza è necessaria, vede forse una alternativa?».
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