Confederazione Sindacale Sarda: il Sindacato per la difesa della propria Terra e della propria Etnia
Essere “etnici” oggi significa avere a cuore le sorti del proprio popolo ed essere in sintonia con tutti i popoli fratelli del mondo che vivono le nostre stesse problematiche. Ciò significa essere veramente internazionalisti.
22 Marzo 2015
Trent’anni fa, molte persone presenti oggi al 7° Congresso Nazionale del Sindacato Sardo, partendo da un’intuizione di Antonio Simon Mossa, secondo cui per intraprendere con maggior forza un percorso di liberazione nazionale, i sardi necessitavano di strumenti propri per affrontare il problema cronico del lavoro, fondarono un sindacato sardo, etnico, così come avevano già fatto altri Popoli senza Stato in Europa.
Le aspettative di crescita del nostro Sindacato, in questi 30 anni, purtroppo non sono state quelle sperate e volute da Eliseo Spiga e da quella pattuglia di coraggiosi. Paradossalmente questo progetto di identità non è stato sostenuto da molti dirigenti del partito storico Autonomista, che spinti da convenienze personali, hanno preferito andare a rafforzare le fila dei sindacati italiani, contribuendo con ciò a indebolire il Sindacato Sardo e rendendolo di fatto meno appetibile e competitivo come strumento di difesa dei propri diritti, agli occhi dei lavoratori sardi.
La CSS, in quanto sindacato etnico, che rende conto delle proprie azioni in campo economico al nostro Popolo, al contrario dei sindacati italiani e delle loro “compatibilità”, deve porre al centro della propria azione un forte progetto di reale sviluppo economico, compatibile ed ecosostenibile per la Sardegna, per le nostre risorse e per le nostre necessità. Perciò fermando le politiche economiche di rapina che in questi decenni hanno espropriato ai sardi le proprie ricchezze economiche, ambientali e culturali, per creare ricchezza solamente alle multinazionali della globalizzazione.
Su questo fronte, la CSS con le iniziative politiche anche dell’attuale Segretario Nazionale, cerca di contrastare e ribaltare il modello di sviluppo che è stato importato e imposto alla Sardegna. Quel modello di sviluppo che a partire dalle cattedrali nel deserto e dal Petrolchimico, ha devastato il nostro territorio, ha ucciso le economie tradizionali, ha inquinato l’ambiente e la Terra, nostra Madre e risorsa primaria, portandoci nel baratro della catastrofe economica e sociale. I risultati sono sotto gli occhi di tutti e tutti ne subiamo le conseguenze.
Oggi il problema irrisolto del lavoro, di un lavoro pulito che garantisca ai sardi il “pane non avvelenato”, impone scelte chiare, radicali e all’altezza della situazione.
E’ tempo di SI e di NO e non di “NI”. Il problema dei rifiuti in Sardegna, ad esempio, va affrontato con il potenziamento della raccolta differenziata, in modo tale da creare con essa risorse, occupazione e nuove opportunità economiche e non vecchi problemi di smaltimento. Questi “problemi” hanno fatto e stanno facendo la fortuna di chi vede, in ciò, solamente il proprio interesse speculativo personale e non quello collettivo.
Questo oggi è il “problema” di chi promuove la politica degli inceneritori, che da Tossilo a Porto Torres vogliono raddoppiare, con impianti pagati in gran parte con soldi e contributi pubblici: risorse sottratte al nostro sviluppo.
Che bisogno abbiamo del raddoppio degli inceneritori, visto che la Sardegna per la raccolta differenziata è in Italia, fra le Regioni più virtuose e gli inceneritori esistenti sono già sovradimensionati per i nostri bisogni? L’unica logica è quella del profitto per le lobby dei rifiuti che mirano a creare nuovi inceneritori per rifiuti non sardi ma d’importazione.
Non vorremo che ancora una volta, insieme all’importazione dei rifiuti indifferenziati, arrivassero in Sardegna rifiuti radioattivi e tossici non meglio definiti.
Così come dobbiamo continuare a vigilare sul progetto del gasdotto Galsi.
La lotta contro quella servitù di passaggio che avrebbe garantito il metano dall’Algeria all’Italia del Nord, attraverso la Sardegna, non l’avremo vinta per la nostra forza, né si poteva contare sul Consiglio della RAS, che in modo trasversale, appoggiò il progetto arrivando addirittura a disporre in Finanziaria Regionale del 2012 (Art. 4), un finanziamento di 150 milioni a favore della società Galsi. Ma come dichiaravo da tempo, anche in sede di Consiglio, nella precedente legislatura, quel problema ai sardi l’avrebbero risolto gli “amici algerini”, non disponibili a svendere il metano ai nostri mercati. Questa Giunta ne ha preso atto seppur parzialmente. Non è mai troppo tardi.
I sindacati italiani con la Confindustria spingono perché il progetto della dorsale del gasdotto Galsi, sia realizzato nell’Isola, con ciò perpetuando la distruzione delle economie e dei territori.
E’ noto che si tratta di un progetto che stravolge la nostra Terra, i nostri pascoli, i nostri terreni agricoli, i nostri fiumi, il nostro patrimonio archeologico… le nostre economie tradizionali. Tutto ciò senza parlare dei rischi per la nostra salute e per la stessa incolumità fisica, senza tener conto dei grandi cambiamenti climatici mondiali, preludio di catastrofi, grazie alle azioni dell’uomo contro la natura.
Se è vero che si pone il problema dell’autosufficienza energetica, anche se i dati dicono che la Sardegna oggi produce più energia di quella che consuma, noi non dobbiamo comunque sacrificare le ricchezze della nostra Terra, della nostra cultura, gli equilibri del nostro ecosistema, in nome di Grandi opere inutili. Non possiamo sacrificare la nostra autosufficienza alimentare (per non chiamarla “sovranità alimentare”, visto che in questi tempi il termine è stato stravolto e abusato per farcelo dimenticare e per far accrescere la nostra dipendenza (vedi il ruolo dei c.d. “sovranisti” all’interno della massima istituzione sarda). Il costo globale della dorsale per il metano è sostenibile per i sardi? Io direi di no.
Il sindacato etnico deve porsi questi problemi se vuole davvero difendere la propria terra, la propria etnia. Essere etnici oggi significa avere a cuore le sorti del proprio popolo ed essere in sintonia con tutti i popoli fratelli del mondo che vivono le nostre stesse problematiche, ciò significa essere veramente internazionalisti.
Credere con determinazione alla propria indipendenza vuol dire essere internazionalisti, contro la globalizzazione mondiale che vuole annullarci in nome del profitto.
Al Congresso del CSS, il mio saluto, in nome di quei pionieri come Antonio Simon Mossa ed Eliseo Spiga, con l’auspicio di libertà e benessere ai patrioti sardi e ai patrioti delle nazioni senza Stato presenti in questa Assemblea.
Claudia Zuncheddu
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