Altra Voce mercoledì 27 Maggio 2009
Dramma in Saras, tre operai morti erano addetti di una ditta esterna
Nel piazzale la rabbia dei colleghi: «Non si può morire per 900 euro»
L’azienda contro il docu-film “Oil”
Prima Pierluigi – Pierluigi Solinas, 27 anni – dentro per controllare quali attrezzi servissero per la manutenzione del serbatoio dell’impianto di desolforazione: pochi secondi prima di sentirsi male e cadere dentro la cisterna. Poi Bruno – Bruno Muntoni, 52 anni, sposato e padre di tre figli – senza pensarci un attimo con l’unica idea in testa di tirare fuori Gigi, come lo chiamavano gli amici: crollato in un attimo. Il terzo è Daniele – Daniele Melis, 26 anni – il più giovane e la freddezza di indossare la maschera antigas: ma qualcosa non ha funzionato, ed è andato giù anche lui. Il quarto della squadra, Luca Fazio, siciliano da pochi mesi in Sardegna, si è salvato solo perché è svenuto prima di entrare: ricoverato in condizioni che non destano preoccupazione. Nei racconti dei colleghi c’è la cronaca dell’ennesima tragedia sul lavoro. Tre morti in pochi minuti alla Saras, a 30 chilometri da Cagliari: una delle maggiori raffinerie d’Europa, oltre mille lavoratori e una capacità di 300mila barili al giorno. Tre morti per un’operazione definita di routine, affidata a una ditta esterna specializzata in manutenzioni industriali.
Fare luce sulla dinamica e sulle cause dei decessi spetterà alla magistratura e al medico legale. Asfissia per mancanza di ossigeno o gas letali che avevano saturato il serbatoio: le prime ipotesi in campo sono queste. Di certo c’è che non indossavano la maschera, raccontano alcuni testimoni, ma la procedura era corretta: la manutenzione in cui erano impegnati dovrebbe essere preceduta da una bonifica preliminare.Avvenuta, secondo quanto riferito dall’azienda ai sindacati: anche se i vertici della Saras, riferisce Giacomo Migheli della Cgil, hanno detto di non sapere se le procedure di sicurezza siano state rispettate. Lasciando all’inchiesta giudiziaria il compito di chiarire cosa non abbia funzionato.
Perché, al di là di che tipo e se il gas abbia ucciso i tre lavoratori, anidride solforosa o asfissia per mancanza di ossigeno, resta che qualcosa non ha funzionato. Restano le dichiarazioni di cordoglio e resta la rabbia. Soprattutto quella degli operai: subito dopo la tragedia, poco prima delle 14, è scattato l’allarme in tutta la raffineria. I dipendenti sono stati invitati a mettere in sicurezza gli impianti e ad abbandonare lo stabilimento. Solo fuori dai cancelli hanno saputo della morte dei colleghi.
Pierluigi, Bruno e Daniele erano dipendenti della Comesa srl, una ditta cui la Saras affida la manutenzione ciclica degli impianti. Operazioni che nella raffineria si ripetono spesso: routine, appunto. Causa abitudine, la ripetizione: magari l’abbassamento della guardia rispetto agli standard di sicurezza. In questo senso le parole degli operai nel piazzale, davanti ai cancelli: «Non si può morire per 900 euro al mese», dicono, «rischiamo la vita tutti i giorni, con turni massacranti e senza riposi». Loro sono “gli esterni”, quasi tutti lavoratori con contratti a tempo determinato.
Lontani anni luce dalla fotografia sviluppata appena qualche giorno fa, quando è venuto fuori che Sarroch è il comune più ricco dell’isola. Meglio di Cagliari, lo dicono l’Osservatorio economico regionale e l’Agenzia delle entrate, e tutto grazie alla raffineria: «Oggi è inimmaginabile pensare a Sarroch senza la Saras, ma anche alla Saras senza Sarroch», dice il sindaco Mauro Cois. Dentro quel polo industriale, e nelle fabbriche legate alla Saras, trova lavoro il settanta per cento della popolazione: sono dati del Comune. Però, continua il primo cittadino in una intervista alla Nuova Sardegna, «non siamo il Bengodi».
L’altra faccia della medaglia sono i casi esponenziali di malattie tumorali, certificati da diversi studi, o gli sforamenti anomali dalle ciminiere. L’ultima denunciata appena qualche giorno fa da Legambiente Sardegna. Questioni che tornano ciclicamente: saranno riproposte anche questa estate, quando lo scirocco porterà dal mare verso le spiagge chiazze oleose scaricate da qualche petroliera diretta chissà dove. Perché la Saras si è sempre difesa: a colpi di certificati di qualità e con i numeri delle navi che approdano nei pontili interni. «Quelle che scaricano in mare», dicono i vertici dell’azienda dei fratelli Gianmarco e Massimo Moratti, «non passano da qui».
Però è stata la stessa Saras a chiedere il sequestro del film “Oil”, del regista Massimiliano Mazzotta: un documentario in cui si mettono in evidenza i rischi per la salute dovuti alla presenza della raffineria nell’area di Sarroch ma anche quelli legati ricorso alle ditte esterne. Nel film parlano gli abitanti della zona e gli operai: «Vanno al ribasso, la manodopera costa sempre meno, turni massacranti e la sicurezza… ciao». Racconta di corsi di formazione di due ore prima dell’intervento per i lavoratori delle ditte esterne, a esempio. Risultato: proiezioni bloccate per il ricorso dei legali della famiglia Moratti, con l’intento di verificare se la pellicola danneggia l’immagine della raffineria. Claudia Zuncheddu, medico e consigliere regionale interpellato nel video, parla di censura: l’udienza è fissata a fine mese, davanti al giudice civile del tribunale di Cagliari.
Intanto resta la rabbia. Quella degli operai e quella dei familiari delle ultime tre vittime. Uno ha atteso l’arrivo del presidente Ugo Cappellacci fuori dall’industria: «Falla chiudere», ha gridato, «falli arrestare tutti». Non è il Bengodi, ha detto il sindaco. Se qualcuno lo pensava, da ieri potrebbe iniziare a rifletterci un po’ di più.
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