una de is bogis prus craras e balentis de Sardigna, at scritu custu un’annu a imoi po arregodai Pàulu Pillonca
Articolo di Claudia Zuncheddu pubblicato su Làcanas Anno XIV numero 86. III 2018
26 Maggio 2019
La bandiera dei quattro mori ha accompagnato uno dei suoi figli più illustri nell’ultimo viaggio verso Seui. Paolo Pillonca riposa di fronte ad un anfiteatro naturale dove la magia sa di eternità. Quella natura imponente continuerà con le stagioni a tingersi di colori e ad emettere i profumi della montagna, lontana dal cemento.
È un lembo di paradiso per i credenti, per gli agnostici e per gli atei. Questo avrei detto oggi a Paolo, aprendo un tema assai caro ad entrambi, quello della bellezza e della salute del nostro ambiente. Sono i luoghi delle nostre radici e del fiorire della letteratura poetica di questo intellettuale sardo raffinato e rigoroso.
Paolo Pillonca è stato un grande interprete della nostra identità ed oggi siamo in tanti a ritenere che lui stesso, con l’eredità culturale che lascia, sia parte integrante del ricco patrimonio identitario sardo.
Ci siamo conosciuti nei primi anni 90, quando gli capitò tra le mani una mia richiesta di sponsor da presentare alla Regione Autonoma della Sardegna, in occasione di una delle mie partecipazioni alla Parigi-Dakar.
Lesse la richiesta e compiaciuto osservò che nella mia carta intestata non c’era il titolo di dottore. Ironicamente, ispirato dall’habitat politico in cui ci incontrammo, mi disse che il mio era un titolo molto ambito. Gli risposi che per me era un segno di riconoscimento utile solo nell’esercizio delle mie funzioni di medico e che perdeva la sua importanza nella mia vita privata e sportiva. Ricordo ancora la sua risata, preludio della nostra grande e lunga amicizia.
Sino ad allora Paolo Pillonca nel mio immaginario era un pilastro portante del L’Unione Sarda, quel giornalista che nei suoi articoli curava persino gli accenti in disuso della lingua italiana. Era il non plus ultra per una sarda come me cresciuta all’ombra di un padre sardista che sosteneva: Noi sardi, quella lingua straniera dobbiamo conoscerla meglio degli italiani. Per meglio combattere contro lo Stato bisogna appropriarci dei suoi strumenti più importanti, quindi della sua lingua.
Il giornalismo di Paolo per la perfezione linguistica e nei contenuti era uno stile da seguire, una scuola per firme di prestigio, anche se questo non è stato facile. Il suo metodo di lavoro che nasceva da grandi passioni e da forti conoscenze culturali non poteva prescindere da grandi sacrifici. Era un intellettuale in moto perpetuo e i territori sardi li viveva intessendo relazioni all’interno delle comunità.
Lo spirito con cui scriveva su fatti dolorosi della nostra società pastorale, come quelli tragici di Osposidda, era orientato dalla consapevolezza che una condanna sulla stampa, per chicchessia, poteva essere più distruttiva di quella di un tribunale.
Il suo giornalismo è stato sempre attento a tutelare e a restituire la dignità lesa ai più fragili, a chi subiva una discriminazione spesso giudiziaria. L’equità dello spazio sulla stampa per esaltare un’ingiustizia subita da qualcuno, implicava sensibilità ed equilibrio davvero straordinari. Negli anni difficili del banditismo in Sardegna, Paolo assolse ai suoi compiti giornalistici in modo egregio facendo emergere i suoi sentimenti di giustizia e di identità.
È facile comprendere le ragioni profonde dell’orgoglio di un personaggio così poliedrico nel definirsi innanzitutto un Giornalista.
I sentimenti identitari su cui si è costruita la nostra amicizia, hanno accresciuto i momenti di confronto sull’importanza vitale della lingua sarda per il nostro popolo ma anche sulla nostra visione del mondo. Il grande tema sulle Afriche ed in particolare le mie relazioni con i Tuareg e con altre dimensioni culturali lo affascinavano. Nelle ultime visite a casa sua, era di buon auspicio raccomandargli di guarire in fretta per poter scrivere storie mai raccontate e parlare della ricca letteratura poetica nelle culture orali del nomadismo, da quella sarda a quella tuareg, se non fosse per lo sguardo malinconico di chi sapeva che purtroppo il tempo stava scadendo.
Credo che la più bella espressione che conservo di Paolo sia quella della intelligenza e della curiosità intellettuale che lo illuminava anche per le più piccole cose, era infatti un uomo che amava molto ascoltare.
Abbiamo discusso spesso e a lungo della militarizzazione forzata dei nostri territori e della maledizione dei cosiddetti modelli di sviluppo importati ed imposti a noi sardi. Si rabbuiava. Sul dramma dell’inquinamento ambientale in Sardegna, mi ricordava spesso la contrarietà del suo amico fraterno Cicitu Masala. Lui seppe anticipare i disastri che avrebbe prodotto il Petrolchimico, mi diceva. Per l’Italia noi sardi siamo carne da macello in tempo di guerra e carne da galera in tempi di pace. Questo sosteneva Cicitu, cosa ne pensi mi chiese in un’intervista. È certo che aveva ragione. Mentre in Italia dopo la guerra ci fu il 25 aprile, per noi sardi a tutt’oggi non c’è liberazione… Chiuse così l’intervista.
La nostra intesa ideologica era così naturale che pochi mesi fa mi chiese cosa dovesse fare per aderire al movimento politico a cui io appartengo. Mi sorprese e mi riempì di orgoglio. Gli risposi che lui aveva già aderito da tempo condividendo il Pensiero e le lotte.
Con Paolo era facile scherzare e ridere, anche quando lo accusavo di essere politicamente ingenuo e di avere una visione romantica di un mondo infame. In realtà, per il poeta Pillonca, era una difesa dalla volgarità in cui è precipitato il sistema che ci governa, a partire dalla classe politica locale.
Negli ultimi tempi denunciava la disumanizzazione e l’avanzare del deserto all’interno dei reparti ospedalieri, quei grandi vuoti dove far disorientare la gente e far perdere persino la pietas cristiana. Tutto faceva parte delle nostre lotte in corso.
C’è chi meglio di me racconterà del raffinato poeta, compositore, scrittore, dell’appassionato cultore de is cantadoris, del grande studioso di lingua sarda, oltre che cultore di latino e greco.
Del mio amico Paolo, al quale mi legano anche tutti i suoi affetti, resta ancora il suono delle ultime risate e della sua ironia, dell’ultimo aperitivo a casa sua, poco prima della sua partenza.
Una voce scherzosa mi direbbe: In tutto questo raccontino lei ha omesso un dettaglio, non ha dichiarato che era il mio medico.
Commenti