La cultura della discriminazione e la violenza sui più fragili
L’Unione Sarda 19-2-2016
Immagini violente che annientano persone incapaci di difendersi imperversano nel web scioccando l’opinione pubblica. Come se ci volessero le riprese dei Nas per far scoprire l’esistenza di un pianeta parallelo dove relegare i disabili, gli anziani non più autonomi, i bambini abbandonati, quelli del disagio psichiatrico, della detenzione, i figli del disagio sociale. Sono i luoghi di sofferenza dove barriere ben definite li separano dal resto del mondo. Nasce proprio sul confine che divide gli uomini la discriminazione.
Dietro le storie di maltrattamenti si nascondono esseri grigi e mediocri con forti complessi di inferiorità. Essi scaricando le proprie frustrazioni sulle persone più fragili, appagano un bisogno di dominio represso con l’arroganza dell’impunità. Nessuno vede, parla, interviene.
Nel pianeta dei più fragili dove l’esercizio del potere di questi esseri grigi gioca un ruolo dominante, la pratica dell’abuso psicologico e la violenza fisica è spesso la prassi su cui la società chiude gli occhi. Sul caso di Decimomannu, donne e uomini nudi in fila per essere lavati con il getto d’acqua attraverso un tubo di gomma fa inorridire, ma non sfiora i sentimenti di nessuno il taglio sociale di 33 milioni alla Legge 20, per i malati psichiatrici da parte della Regione Autonoma: un taglio drammatico alla disabilità che non emoziona.
La stampa alimenta lo sdegno della collettività che invoca la Giustizia. Ma l’aspetto giudiziario è marginale. Il problema è culturale, proprio di un modello sociale subdolo e violento, che discrimina e ghettizza la sofferenza. Tra ipocrisia e cinismo è proprio sul disagio che sono nate grandi fortune economiche grazie a fiumi di finanziamenti pubblici. Il fenomeno della discriminazione è complesso.
Per chi è privo di autonomia e di indipendenza il rischio di subire trattamenti degradanti e abusi psicologici è alto e spesso subdolo. Può esordire banalmente anche con il non riconoscimento dei titoli con i quali la persona si identificava e veniva identificata nel corso della sua vita attiva. Chiamarli solo per nome, in una relazione non di amicizia, non familiare ma di dipendenza, aumenta la fragilità e l’umiliazione. Il rispetto dell’identità, anche nel disagio, è un atto di buona educazione e di stimolo a non dimenticare la propria storia.
Il mio insegnante di un tempo, oggi mio fragile paziente, ospite di una comunità, seppur con il pannolone e con la mente stanca, continua ad essere il mio Professore di sempre. Chiamandolo con il suo titolo come ai vecchi tempi, rispetto la sua identità e sollecito la sua memoria. Nel suo sguardo perso nel vuoto, in un attimo di lucidità, cerco di ritrovare l’autorevolezza e l’autorità con cui il Professore spesso faceva tremare noi studenti.
La Giustiza faccia il suo corso, ma non basta.
Claudia Zuncheddu
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